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Umberto Tirelli apre la sua sartoria nel novembre 1964 con due macchine da cucire, cinque sarte, una modista, una segretaria e un autista-magazziniere. Da allora la sartoria Tirelli non ha fatto che crescere.
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Come si può spiegare il fatto che Umberto Tirelli non sia rimasto coi piedi piantati fra i campi di Gualtieri, dove era nato nel 1928, e abbia scelto invece di vestire Medea e Ludwig di Baviera? Forse la curiosità esistenziale della sua famiglia, forse le febbri intellettuali dell’adolescenza nella bassa padana, forse la vicinanza con la snobbissima Parma, forse soltanto il caso nelle sembianze di un sarto suo compaesano, Luigi Bigi, ambasciatore della moda francese. Bigi, che lo vedeva lavorare con colla e forbici, rovistare nelle soffitte, recuperare vecchi stracci per creare costumi e mascheramenti, diceva: “Tu hai troppo amore per queste cose. Finirai sarto”.
Il suo destino lo ha portato a vestire non gli uomini, ma le loro rappresentazioni, non la realtà ma la scena, non il presente, ma un passato di crinoline ed “inquartate”.
Il primo posto di lavoro è fattorino in un negozio di stoffe a Milano. “Non avere fretta - diceva la madre - forse si libera un negozio sotto i portici e potrai aprire una bella merceria”. Anni dopo, anche quando Umberto sarà arrivato e felice nella sua bella sartoria teatrale, mamma Dirce continuerà a dire: “Va là va là. Sares mei un bel negozi a ca’ tua”. A Milano gli propongono di entrare alla Sartoria Finzi, costumi per il teatro. Lì c’è il primo incontro con Luchino Visconti, già una leggenda per il suo rigore nelle ricostruzioni di ambienti e abiti: per lui i personaggi dovevano essere “vivi, veri, vestiti e non costumati”. La sartoria nel 1955 realizza per Visconti parte dei costumi della storica Traviata, quella con le scarpe di Violetta lanciate verso il proscenio per liberare i piedi stanchi dal troppo ballo.
Quella di Tirelli per il regista fu un’immediata cotta artistica che, poco più in là, si trasformerà nell’amicizia determinante nella sua vita e nel suo lavoro. Quella stagione milanese fu prodiga di intelligenti e generose amicizie: Franco Zeffirelli che dirigeva alla Scala, Piero Tosi che creava i costumi per la Sonnambula, Beppe Modenese che divideva con lui le due camere, cucina e bagno.
Sono Zeffirelli e Tosi che lo trascinano a Roma e gli trovano lavoro alla Safas, sartoria teatrale di alta artigianalità ma bisognosa di nuova linfa per l’età avanzata delle proprietarie. Se a Milano si era fatto le ossa sui materiali, qui Tirelli impara la meticolosità del cucito, tutto a mano: una manica va piombata, va girata, non può essere cucita così alla buona sperando che la distanza dalla platea al palcoscenico mimetizzi. Impara che la cultura non riguarda solo il costumista, ma anche il sarto teatrale, che per il costumista è qualcosa di più importante del capomastro per l’architetto. Cerca nelle biblioteche, visita i musei, fa incetta di manuali, impara come nel Settecento si tagliava un’inquartata e come una pince di due millimetri e mezzo può dare una linea diversa ad un vestito. Spesso in nome del rigore storico si consumano sacrifici. A Claudia Cardinale per il ballo del Gattopardo il duo Tosi/Tirelli stringe la vita da 68 a 53 centimetri con un busto diabolico. Le riprese del ballo durarono un mese: la Cardinale ne uscì piagata. Tosi e Visconti imbustano anche la Callas, nella Sonnambula del 1955: pareva una follia comprimere i fiati di una soprano, ma la Callas non fece una piega.
Quelli della Safas sono anni magici: la televisione usciva dal pionierismo, il cinema aveva le vele al vento, la lirica era miracolata dalle voci della Callas, della Tebaldi, di Di Stefano e Del Monaco. Nella prosa trionfava la Compagnia dei Giovani con in testa Romolo Valli e nasceva il Festival di Spoleto. Per Tirelli sono gli anni degli incontri con i maestri di talento e genialità, ma capaci anche di capire, e di insegnare senza mai montare in cattedra. In testa Luchino Visconti, che passava interi pomeriggi in laboratorio alla Safas. Per il Gattopardo dall’inizio del 1962 la sartoria viene monopolizzata per sette mesi e duemila costumi: quelli di Fabrizio, Tancredi, Angelica, quattrocento toilettes da ballo e tutti i garibaldini, le masse dei pastori e dei contadini.
Nel 1964, due anni dopo quel faticatissimo set, Tirelli si mette in proprio. Una Tosca di Mauro Bolognini con i costumi disegnati da Anna Anni è il primo spettacolo firmato dalla “Sartoria Teatrale artigiana Tirelli”. Umberto Tirelli è qualcosa di più e qualcosa di meno di un sarto teatrale, capisce che fra il sarto con forbici ago e filo e il costumista c’è uno spazio vuoto da riempire con professionismo. Quello è il suo mestiere: realizzatore di costumi e insieme archeologo della moda. Una definizione che è la più in linea con sua la passione per il recupero di abiti d’epoca e di accessori autentici: bottoni, fibbie, nastri, piume, fusciacche, dalmatiche, passamanerie, guanti, cappellini, borsette. Anche in questo Visconti e Tosi gli sono maestri, trascinandolo in un trovarobato che diventa quasi una malattia: il piacere di scovare fra soffitte e bauli reperti di moda da far resuscitare magicamente in palcoscenico.
Risultato, nove magazzini stipati di quindicimila abiti d’epoca: il museo Tirelli. Il grosso abbraccia cent’anni, dal 1870 al 1968. Ma l’intera raccolta traccia la storia di quattro secoli di moda: il Cinque, il Sei e il Settecento, la Rivoluzione Francese con le donne che buttano il corsetto e si denudano sotto camicie di batista bianca, il primo Impero, il ritorno del busto, il romanticismo di trine, rasi, fiori e velluti, la pomposità della moda Luigi Filippo e la volgarità del secondo Impero, con diademi, boccoli e strascichi a non finire, l’epoca di Napoleone II con le gonne e sottogonne della contessa di Castiglione, la linea pulita e quasi aderente di Sissi imperatrice d’Austria che mandò in soffitta cerchi e crinoline, fino agli anni Venti, a Chanel, ai “gran sera” di Dior, Balenciaga, Galitzine e Capucci. Un collezionismo maniacale che lo porta a passare i fine settimana a rovistare nei mercatini delle pulci o negli armadi dimenticati dei palazzi patrizi, finché la fama si sparge e arrivano pezzi straordinari donati per amicizia perché “si sa dove vanno a finire”. Le sue cose più importanti hanno arricchito la prima mostra di moda curata da Diana Vreeland al Metropolitan Museum di New York: “Inventive Clothes”, vent’anni di moda dal 1919 al 1939.
Filologo della moda, alleato e spalla dei costumisti anche nella fase dell’ideazione, istintivo segugio dell’autentico e ricercatore di materiali impossibili, tutto per dar vita a quei “figurini” disegnati sui bozzetti di scena. Per la Medea della Callas nel 1969 usa cencio della nonna e garza sanitaria, e fa bollire buccia di limone e ortiche per ottenere certi gialli e certi verdi, per il Mosè di Rossini del 1968 usa maglie all’uncinetto, nylon a tre strati per le mantelle, plastica colata in calchi e invecchiata con bruciature per le corazze. Il sodalizio di lavoro e amicizia con i costumisti è fondamentale. I suoi “santi” sono Piero Tosi e Pier Luigi Pizzi, l’uno ricercatore documentato, l’altro inventore fantasioso.
Agli inizi degli anni Settanta Tirelli non ha respiro: passa dal Conformista di Bertolucci a Roma e Amarcord di Fellini, al Tristano e Isotta su disegni di Manzù, da Truffaut a Streheler, che gli affida la sua più amata creatura, il Giardino dei ciliegi. Sono gli anni più intensamente cinematografici anche per Visconti, che, appena uscito dal successo della Caduta degli dei, finisce di girare Morte a Venezia e si appresta al monumentale Ludwig: solo per realizzare il mantello per la scena dell’incoronazione la sartoria ci mise tre mesi. Ma amici e affetti se ne vanno in rapida successione: muoiono Visconti, Romolo Valli, la Callas, muore la mamma Dirce, e Tirelli si aggrappa al lavoro: Fellini, Cavani, Ronconi, Scola, Bolognini gli offrono una positiva e felice difesa contro gli orrori della vita.
Gli anni Ottanta sono ancora una stagione di stacanovismo. L’alleanza con i costumisti crea le “grandi firme” che si sono fatte le ossa in sartoria: in testa Gabriella Pescucci, poi Fiorella Mariani, Wayne Finkelman, Giuseppe Crisolini Malatesta, Francia Squarciapino, Maurizio Millenotti, Alberto Verso e Giovanna Buzzi. Sono gli anni della fitta collaborazione con Luca Ronconi e del sodalizio con Pierluigi Pizzi per la lirica. L’alleanza con il cinema è più saltuaria, ma nascono capolavori come Oci Ciornie di Michalkov e, con i costumi della Pescucci, C’era una volta in America di Sergio Leone e La famiglia di Scola. Quel che non arriva dall’Italia, arriva dall’Europa e dagli States e la dimensione internazionale della sartoria Tirelli ha un’impennata. Nel 1981 la costumista italoamericana Milena Canonero approda alla sartoria di via Pompeo Magno per il guardaroba di Momenti di Gloria, vincerà l’Oscar e continuerà ad appoggiarsi a Tirelli per Cotton Club e il terzo Padrino di Coppola e La mia Africa diSidney Pollack. Sempre negli anni Ottanta Gabriella Pescucci affida ai fedelissimi sarti di Tirelli i costumi de Il nome della rosa, Teodor Pistek quelli di Amadeus di Milos Forman, Franca Squarciapino quelli del Cyrano de Bergerac. Le credenziali hollywoodiane di Tirelli si moltiplicano.
Nel marzo del 1990, due dei “suoi” film, Valmont e Il barone di Munchausen ottengono la nomination all’Oscar. Tirelli è alla cerimonia con l’amico Dino Trappetti, colui che gli succederà a capo della sartoria: ha taciuto a tutti che i suoi sessantadue anni sono condannati, ha taciuto perché vuole godersi quel trionfo, ha taciuto perché a breve andrà in scena Traviata diretta da Riccardo Muti coi costumi di Gabriella Pescucci realizzati dalla “Sartoria Teatrale artigiana Tirelli”. Maggio 1990, è l’ultima Traviata di Tirelli. Maggio 1955, la prima Traviata di Visconti segnò la nascita di una passione. Fra una Traviata e una Traviata trentacinque anni di sapiente mestiere, di talento artigianale, di entusiasmi professionali al servizio di un lavoro singolare: il sarto teatrale, quello che non veste gli uomini, ma i loro sogni.
Dal volume “Vestire i sogni” di Guido Vergani e Umberto Tirelli.